Parte Terza

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L’ISOLA DEI PAPPAGALLI
CON BONAVENTURA PRIGIONIERO DEGLI ANTROPOFAGI

Compagnia Tofano – Maltagliati – Cervi
TORINO, Teatro Alfieri,18 gennaio 1936
Bonaventura
il bassotto
Barbariccia
Scarlattina, podestà
Rosolia,sua figlia
la governante 
il Capitano della Teresina
primo marinaio
secondo marinaio
il bellissimo Cecè
il cliente che ha sonno
prima ragazza
seconda ragazza 
terza ragazza 
il Re negro 
la Regina negra 
l’aiutante negro 
Giuiuk, trovatella negra 
Sergio Tofano
Alma Norsa
Eugenio Cappabianca
Federico Collino
Evi Maltagliati
Pina Camera
Gino Cervi
Alfredo Morati
Pierangelo Priaro
Giuseppe Porelli
Gastone Schirato
Ninì Gordini Cervi
Ada Frey
Ida Mezzera
Angelo Bizzarri
Amelia Chellini
Renato Navarrini
Rosetta Tofano

Regìa, scene e costumi di Sergio Tofano
  Musiche di Nino Rota


                                                                                                                         Renato Simoni
 Ricordo Sergio Tofano nei suoi primordi d'attore, magro, con il busto un poco dondolante sul compasso delle gambe, e tutto scuro e scabro per la ruggine della sua timidezza, con un gran frego di bocca sotto il naso secco, e strani occhi dove gli sguardi parevano arretrare esitanti, dolenti e imbuiati. Virgilio Talli gli voleva bene perché vedeva chiaro in quella specie di maldestro disagio fisico e morale del suo allievo, e gli parlava tra cordiale e canzonatore sempre sorvegliandolo, esercitandolo, strapazzandolo, consolandolo con bruschezza incitatrice che, nella incontentabilità del maestro, faceva sentire una stima paternamente tirannica. Il giovane, addestrandosi a interpretare le figurette comiche, che Talli voleva sempre tipiche e rilevate, le intagliava in una sua durezza brusca e rugosa e bizzarra, a nocche, a bozze come scorza d'albero; e l'attore eccellente, ricco di invenzioni ch'egli è divenuto, ha, nella sua originalità, i bei segni e il sapore d'una primitività e spontaneità dell'anima che non si è guastata nell'aria antica del palcoscenico.
 Che cosa ci fosse in quella primitività di Sergio Tofano, egli stesso ci rivela quando diventa Sto, quando cioè si abbandona a due deliziosi estri, uno ingenuamente canoro e l'altro graziosissimamente pittorico. Allora, non più costretto a forzare, nella imitazione teatrale del vero, la sua natura immaginosamente divagante, egli si rappresenta una realtà incredibilmente credibile, dove, non già l'umano diventa meraviglioso, ma il fiabesco diventa umano e l'assurdo prende un'aria borghese e familiare e l'avventura assume un'apparenza di sensatezza e di normalità. Guardiamoli bene quei personaggi di Sto; essi sono ritratti di Sergio Tofano e di quella limpidezza che egli tien bene chiusa nel cuore, poiché, in mezzo alla gente, egli è sempre trepidante e come sperso. Sto se lo disegna, se lo dipinge, quasi guardandosi dentro, il signor Bonaventura, così buono e sì quieto e romanzesco, che, squattrinato ogni mattina, non perché è povero, ma perché non è ricco, rincasa ogni sera con un milione; un milione corrente e circolante come un biglietto da dieci lire, cioè un milione soprannaturale e naturale; soprannaturale appunto perché è un milione, naturale appunto perché non vale neppure dieci lire. Non c'è il Tofano timido, che si annebbia in sé davanti agli altri, o perché commette l'errore di sopravvalutarli o perché ha il torto di sottovalutarsi, nel signor Bonaventura che vede sempre un gran milione nelle mani altrui, e, quando lo ha nelle proprie, s'avvede che è piccola pecunia?
 L'attore, disegnandolo, non lo effigia soltanto, se lo interpreta anche quel personaggio sì caro ai ragazzi e agli uomini! E gli pone intorno gli antagonisti e i generici; e così ne fa la commedia, scrivendone in versetti svelti e schietti il dialogo e le didascalie. E’ il teatrino che Sto fa per Tofano; e Sto ci si diverte non meno di Sergio.
 Era naturale però che dal teatrino di carta, Bonaventura e tutti i suoi interlocutori uscissero per andare verso il teatro vero; prima di tutto perché la loro spontaneità è piena di ilare vita espansiva, e poi perché Sto è Tofano, cioè un uomo che del teatro e nel teatro vive. Ed ecco l'Isola dei pappagalli, dove le immagini non sono più disegni e colori, ma si impersonano in attori in carne e ossa, sui quali il disegno e il colore di Sto sono diventati truccatura e travestimento.
 Isola straordinaria, ma straordinaria perché non vi avvengono che cose ordinarie; pazzamente ordinarie sì, ma logiche, direi quasi consequenziali. Se mai è la realtà precisa e fredda che non si sviluppa logicamente. O perché, nel mare fatto di acqua salata, il pesce sega ha da essere un pesce sega, che non sega affatto? Nel mare di tela dipinta che bagna le coste del mondo dei Bonaventura, il pesce sega compie a puntino tutti i doveri che gli vengono dal suo nome; e forse per pienezza di cuore li supera, quando, battendosi in duello, fa il pesce spada. O perché i bellissimi Cecè, che nella vita sono tanto numerosi, dovrebbero trascurare la squisita e soave eleganza, appena mettono il pie' in un'isola remota, in mezzo ad una eletta società di antropofagi? O sono Cecè o non lo sono. Se lo sono, debbono tenerci ad esserlo tanto fra le leggiadre damine imbiondite d'Europa che mordicchiano un'ala di piccione, come tra i robusti petti che digeriscono impavidi i cosciotti d'uomo ben rosolati sullo spiedo. Il vero Cecè, anche se i leoni gli ruggiscono intorno  rabbiosi da sgangherarsi le fauci scarlatte, si volge intorno a chiedere con garbo: “Dove c'è una stiratrice - per rifare la piega ai pantaloni?” E poi che leoni e che antropofagi sono questi di Sto? Sono anche essi milioni che valgono dieci lire, cioè terribili selvaggi e belve ferocissime che, “mucci mucci -sento odor di cristianucci”, restano lì a fiutare, ma non si prendono la confidenza d'azzannare neanche un fondo di pantaloni. Intorno ad essi strilla, bercia, squittisce, gracchia, scrocchia, piumeggia la più bella tribù di pappagalli che sia mai vista nelle isole che hanno fior di posizioni sulle carte geografiche: sprizzi e bagliori e rutilanze di rubini e topazi e smeraldi e zaffiri, volitanti e saltabeccanti di qua e di là, componentisi in cornici e festoni e ghirigori attorno al gioco delle rime, buffe e colorite anch'esse, sì che la giocondissima commedia è tutta variopinta.
       Come la godettero i ragazzi quando essa apparve sui nostri palcoscenici! Con quale gioia videro diventare animati e parlanti i disegni di Sto! E come hanno battuto le mani a Sergio Tofano che, recitando Bonaventura, tornava nel mondo della sua infanzia, da quello della sua arte, sì bello anch'esso, e vittorioso, ma tanto più amaro e periglioso, perché, se ci incontri un antropofago, quello ti cuoce e ti mangia davvero, anche se sei tutt'osso, come Sto e come Sergio!
(prefazione a “L’isola dei pappagalli”, Ed. 1938)

Emanuele Luzzati: l'ultimo personaggio della Commedia dell'Arte 
Sto con Giancarlo Fusco: come si muove Bonaventura 
Edoardo Sanguineti: Sto e il melodramma, con:
Scarlattina Podestà (Mario Pachi) in
"Canzone del padre disperato"
da L'isola dei pappagalli

L’ISOLA DEI PAPPAGALLI
CON BONAVENTURA PRIGIONIERO DEGLI ANTROPOFAGI
Compagnia degli Spettatori Italiani
Roma, Teatro delle Arti, 1954
Bonaventura
Il bassotto 
Barbariccia
Scarlattina, podestà
Rosolia, sua figlia
La governante
Il Capitano
Primo marinaio
Secondo marinaio
Sergio Tofano
Lucia Rissone
Mario Maldesi
Federico Collino
Monica Vitti
Rosetta Tofano
Renzo Giovampietro
Paolo Tommasi
Mario Milita
Il bellissimo Cecè
Il cliente che ha sonno
Prima ragazza
Seconda ragazza
Il Re negro
La Regina negra
L’aiutante negro
Giuiuk , trovatella negra
Antonio Pierfederici
Michele Riccardini
Antonella Garzoni
Eliana Antonini
Sergio Bargone
Ave Ninchi
Enrico Ostermann
Franca Maresa
Regìa, scene e costumi di Sergio Tofano
Musiche di Nino Rota
Coreografie di Gilberto Tofano


l'ex allieva debuttante,
Monica Vitti con Sto


 

BONAVENTURA VETERINARIO PER FORZA
Compagnia Tofano – Solari
MILANO, Teatro Mediolanum,30 novembre 1948

 
Bonaventura
Sergio Tofano 
il bassotto Franca Valeri
il burattinaio Vittorio Caprioli
Barbariccia Carlo Bagno
il Re Mezzobrando Antonio Pierfederici
la Regina Mezzabranda Laura Solari
il Reuccio Laura Sensi
il banditore Paola Porta
il trombettiere Dario Michaelis
il tamburino Adriano Mauri
la maestra di Corte Isabella Riva
la domatrice Ela Franceschetti
Camilluccia- foca ammaestrata Vittorio Caprioli
la strega Barsegapé Isabella Riva
il mago apprendista Vittorio Caprioli
la Fata Rosetta Tofano
Regìa di Sergio Tofano
Scene e Costumi di Sergio e Rosetta Tofano
Musiche di Fiorenzo Carpi
Coreografie di Rosita Lupi
aiuto regista Francesco Savio


 
 

BONAVENTURA PRECETTORE A CORTE
Compagnia del Teatro dei Satiri
ROMA, Teatro dei Satiri,20 febbraio 1953
Bonaventura 
ilbassotto 
ilRe 
la Regina 
il bellissimo Cecè 
Barbariccia 
Cicorietta 
Berenice, ancellatuttofare 
l’Orco 
Brigida, ostessa 
ilGeneralissimo 
l’Esercito 
il borsaronero 
un giornalaio
Sergio Tofano
Lucia Rissone
Renzo Giovampietro
Elvy Lissiak
Warner Bentivegna
Mario Maldesi
Bruno Corelli
Franca Maresa
Gaetano Verna
Cesarina Gheraldi
Roberto Bertea
Mario Milita
Roberto Bertea
Gino Grey
Regìa, scene e Costumi di Sergio Tofano
Musiche di Roman Vlad
Coreografie di Marcella Ottinelli


L'ultimo bassotto di Sto:
Lucia Rissone, figlia di Checco Rissone,
il primo bassotto di Sto
(Qui comincia la sventura, 1927)



 
                                                                                                                        Oreste Del Buono
Oggi, giorno in cui scrivo queste righe, trovo scritto sul calendario: San Bonaventura. San Bonaventura, chi fu costui? E inevitabile: se penso San Bonaventura, vedo immediatamente l'ometto dal cappelluccio rosso, la redingotta rossa, i pantaloni bianchi e le scarpe rosse. Un ometto, dinamico più per forza di eventi che per forza propria, rimbalzante di avventura in avventura, anzi, a prestar fede all'incipit della prima puntata, di sciagura in sciagura la maggior parte delle volte con soddisfazione generale, a lieto fine. L'ometto impareggiabile di Sto, insomma. Come San Bonaventura, è il primo che mi venga in mente, e l'ultimo, anche. Mi dispiace per il San Bonaventura a cui allude il calendario. Sarà stato magari una brava persona, ma non regge il confronto; l'unico San Bonaventura veramente santo è quello che dico io. E che possono dire con me una quantità d'altri, gente di più di mezzo secolo, gente di mezzo secolo, gente di meno di mezzo secolo. Chiunque abbia avuto la sorte di conoscerlo.
Sto si chiamava nella vita Sergio Tofano. Era figlio di un magistrato napoletano trasferito a Roma. Studiò, e si laureò perché così voleva il padre, ma aveva già altri interessi. Due interessi che avrebbe fedelmente coltivato: la recitazione e il disegno. NeI 1909 entrò in arte nella compagnia di Ermete Novelli, cominciò scrupolosamente a imparare le regole e a farle lievitare impercettibilmente, ma progressivamente, di qualcosa di suo. E nel 1912, trovandosi per recitare a Milano, presentò a Silvio Spaventa Filippi, direttore del «Corriere dei Piccoli », una novellina illustrata dall'autore.
Il « Corriere dei Piccoli », nato all’arte, guarda caso, lo stesso anno in cui nasceva all'arte Sergio Tofano, era il gran successo dell'epoca: un giornale per i piccoli che quasi riusciva più gradito ai grandi. Probabilmente senza quasi. I primi, irresistibili fumetti americani erano riprodotti senza i fumetti, ovvero senza le parole del dialogo dentro le nuvolette, ma in compenso erano dotati di versetti davanti ai quali la borghesia si arrendeva. Rime e controrime che venivano ripetute all'infinito, anche se l'esigenza appunto della rispondenza portava molto spesso i traduttori ad alterare, e comunque sempre a impoverire di tradimento, il meraviglioso afflato delle imprese di Fortunello o di Capitan Cocoricò.
Ovviamente, per un minimo di nazionalismo, il « Corriere dei Piccoli » non si appagava della merce d'importazione, pretendeva di offrire pure merce nostrana, eroi italiani in avventure italiane. E qui si verificava un certo guaio. I disegnatori c'erano. Antonio Rubino e Attilio Mussino, a esempio, non avevano molto da invidiare a Frederick Burr Opper o a Rudolph Dirks. Quelle che mancavano erano le idee, le trovate di partenza, di svolgimento, di arrivo. Troppo di frequente a dettare le trame italiane erano quei malefici versetti che finivano addirittura per impedire che le storie italiane esistessero, mentre le storie americane, nonostante il tradimento in versi dei traduttori, una qualche dose della virulenza e della libertà delle trame americane, la conservavano. Ebbene, nella prima novellina illustrata dall'autore che Sergio Tofano gli presentò, il direttore del « Corriere dei Piccoli » fiutò la rarità: uno con delle idee.
Sergio Tofano era schivo, riservato, esageratamente timido, forse, ma aveva delle idee. Silvio Spaventa Filippi, gli chiese idee per gli altri. Sergio Tofano ne fornì. Si immedesimò nel modesto ruolo che gli veniva proposto al giornale come si immedesimava nei modesti ruoli che gli venivano proposti a teatro. Si immedesimò con la solita applicazione e la solita passione.
Ma, dato che l'interesse per il disegno non era esaudito dal giornale come l'interesse per la recitazione era esaudito dal teatro, ovvero con sempre nuove occasioni di affilare quell'arte straordinaria che aveva in potenza in sé, straordinaria proprio per la sua assoluta mancanza di straordinarietà in superficie, per la felicità della facilità apparente dell'espressione, Sergio Tofano continuò a disegnare altrove. Sinché un giorno, Silvio Spaventa Filippi restò finalmente sedotto da certi disegni di moda di Sergio Tofano su una rivista femminile, e ripensò al miglior sfruttamento del fornitore di trovate del « Corriere dei Piccoli », trovate che venivano illustrate da altri, magari con perizia ma anche con una ridondanza che ne ottundeva un poco lo slancio. Così aprì a Sergio Tofano una pagina intera del « Corriere dei Piccoli ». Una pagina tutta sua. Dalle trovate ai versetti, passando, ovviamente, per i quadretti, come erano chiamati allora i fumetti senza i fumetti, non tanto dalla loro dimensione, per l'esattezza più rettangolare che quadrata, quanto dalla loro vezzosità di piccoli quadri molto pittati con i bei colori bianco rosso giallo celesti accesi dell'infanzia. E, per qùella pagina tutta sua, Sto creò il Signor Bonaventura: « Qui comincia la sciagura - del Signor Bonaventura...».
Era il 1917. Si era in guerra, un brutto anno di guerra. L'Italia, al solito inadeguata ai compiti assuntisi, scricchiolava. Ma Sto è sempre stato troppo lucidamente pessimista per indulgere mai all'espressione sfacciata del pessimismo. Quell'incipit: « Qui comincia la sciagura - del Signor Bonaventura...», con sciagura che sarebbe stata presto sostituita da sventura, conteneva la promessa, la cambiale, la garanzia che la sciagura prima o poi, prima comunque e non poi il penultimo quadretto, sarebbe finita. L'ultimo quadretto era, infatti, consacrato alla ricompensa. Sto, preoccupato di non superare la misura della sua arte straordinaria anche nei ricordi, nelle confessioni, nell'autobiografia insomma, ha preferito limitare la nascita del Signor Bonaventura a una specie di contrappunto pupazzettistico, un antagonismo corrierinistico. Nessun riferimento alla situazione generale, alla disperazione nazionale, alla catastrofe materiale, tutt'al più la citazione in causa di un personaggio di altri quadretti, un personaggio americano.
Il personaggio americano si chiamava nella traduzione italiana Fortunello e furoreggiava sul « Corriere dei Piccoli »; ancora oggi Federico Fellini ne commemora le disavventure come l'essenza stessa della comicità. La caratteristica di Fortunello, buono, dolce, indifeso vagabondo era il triste fine. Un triste fine irrecusabile, da fato greco o peggio. Al Signor Bonaventura Sto non risparmiò certo le disavventure secondo la ricetta della vera comicità per cui la mancanza di infortuni, la tranquillità, il perfetto funzionamento della vita suscitano noia, al contrario dell'abbondanza di infortuni, della turbolenza, della puntuale disfunzione della vita che suscitano movimento, quindi attenzione, svago, ilarità.
In compenso, al Signor Bonaventura Sto evitò il triste fine, lo tutelò, protesse, preservò dalla jettatoria esazione del fato greco o peggio. In parole povere, al Signor Bonaventura Sto assicurò il lieto fine, un lieto fine ancora più lieto perché di là da ogni aspettativa, piuttosto illogico, addirittura insperato, un lieto fine che era un autentico colpo di scena, un autentico tradimento, un'autentica pugnalata alle spalle del fato greco o peggio. Un lieto fine insperato, ma garantito, qui sta la contraddizione della formula di Sto, e la ragione del suo grande successo. Il Signor Bonaventura ebbe, infatti, un grande successo presso piccoli e grandi, uno di quei grandi successi che in pratica sanciscono il passaggio di proprietà di un eroe popolare dall'autore al pubblico.
« Qui comincia la sciagura /  del Signor Bonaventura, / che cogliendo un gelsomino / dalla loggia del vicino, / troppo sportosi di fuore / per raggiungere quel fiore / capitombola di sotto / lui, col fido suo bassotto. /  In quel mentre un malandrino / svaligiato ha il magazzino / di Pandolfo e della Biagia / negozianti di bambagia. /  Con guardinga aria furtiva / porta via la refurtiva... / quando un uomo ed un bassotto / piombar sente sul fagotto. / Or la guardia fuori scappa / che pel collo il ladro acchiappa, / festa all'altro viene fatta / dai padroni dell'ovatta. I E un bel dì, per fare onore / all'aereo suo intervento / lo decorano al valore / tra l'unanime contento! »
Il Signor Bonaventura fu sin dall'inizio un eroe dinamico statico. Uno slancio irrefrenabile lo portava a sporgersi, a capitombolare, a sprofondare nel cuore della disavventura come da quel suo terrazzino per cupidigia di un gelsomino. Ma lo slancio diventava quasi subito statico, l'eleganza grafica fissava l'azzardo della parola, risolveva il movimento in grazia. In fondo al precipizio era un gran fagotto di bambagia, non capita davvero a tutti di cadere su un ladro di ovatta, anzi sull'ovatta di un ladro. E poi c'era la premiazione, all'inizio medaglie al valore e figlie da marito, presto la mitica cifra, il milione scritto sul foglio bianco e tanto poco escrementizio,
tanto meno consistente di una medaglia al valore o di una figlia da marito. Già dalle prime esibizioni, il Signor Bonaventura smise di appartenere all'autore e appartenne al pubblico per circa mezzo secolo. Gli appartenne così totalmente che, quando a un certo punto per movimentare quella che gli appariva la monotonia della Signorbonaventureide, Sto provò a far perdere invece che a far guadagnare il guiderdone finale al suo non più suo personaggio, incorse nelle proteste più drastiche, e dovette tornare a far riscuotere il mitico milione magari trasformatosi in miliardo. Da un'inflazione all'altra, mi domando ai nostri giorni che cifra mitica dovrebbe essere scritta sul foglio bianco dell'ultimo quadretto.
Ma ai nostri giorni Sergio Tofano se n'è andato. Se n'è andato da poco, con la consueta discrezione. Come disegnatore aveva chiuso, con la conclusione delle disavventure a lieto fine del Signor Bonaventura. Aveva più o meno chiuso con il teatro, almeno con il palcoscenico. Ma non aveva smesso di lavorare. Ha lavorato sino all'ultimo come attore di televisione. Un autentico artista sa esprimersi con ogni mezzo di espressione che si senta di tentare. La televisione, anzi, ha fornito a Sergio Tofano la possibilità di raggiungere meglio il pubblico. Dal palcoscenico i suoi semitoni, le sue pause, i suoi risolini d'ironia appena accennati come le sue smorfiette di sconforto a volte sfuggivano a quelli delle file più distanti, dei loggioni.
Il piccolo schermo, invece, rivelava compiutamente la sua maestria in una successione di quadretti quasi molto pittati da lui con i commoventi colori grigi e sfumati della vecchiaia: qualsiasi personaggio da lui adottato diventava un evento, un evento memorabile da non stancarsi di vedere e rivedere, di sentire e risentire. Il rispetto degli autori dei testi era assoluto, ma ancor più assoluto era il rispetto dell'umanità, anche dell'umanità della disumanità degli eroi: è un eroe anche il più sommesso degli antieroi. Sergio Tofano riusciva sempre, senza tradirlo, a fare assolvere, a fare rispettare, a fare amare la figura che gli toccava in sorte. Tutti Signori Bonaventura condotti di disavventura in disavventura al lieto fine per eccellenza, la comprensione, l'adozione, l'appropriazione da parte del pubblico.
Dopo una lunga, lunga carriera, cosa resta di un grande artista come Sergio Tofano che ha sempre lavorato esclusivamentè per il pubblico? Molto poco: il ricordo delle sue interpretazioni teatrali, le ingiallite, macerantisi collezioni di un giornaletto, la raccolta Garzanti di novantanove avventure del Signor Bonaventura, qualche replica televisiva per le serate del venerdì, quelle più disertate dai telespettatori. Ma troppo poco, un tesoro che rischia di polverizzarsi con l'usura dei giorni, la sopraffazione dell'oblio, l'indifferenza della mediocrità. Per questo mi par sacrosanta l'iniziativa di ripubblicare le commedie e le storie in prosa e in versi di Sto.
È un'occasione preziosa per apprezzare meglio questo protagonista dello spettacolo per piccoli e grandi del nostro secolo italiano. Sto scrive deliziosamente come disegna. E lo scritto e i disegni ci aiutano a ricordarlo, a ricostruirlo, a riassaporarlo come attore. Quanto a me, la ricorrenza significativa del calendario, San Bonaventura, è una tentazione al sentimentalismo. Il primo spettacolo teatrale da me visto fu a Roma, mezzo secolo fa o presso a poco, uno degli spettacoli del Signor Bonaventura raccolti in questo volume. Fu la folgorazione. Sto nei panni del Signor Bonaventura era uno spettacolo nello spettacolo, lo spettacolo dello spettacolo, un evento da dar la febbre a uno spettatore minore, o minorato, fate voi, quale ero io, allo stesso modo dello spettacolo nello spettacolo, dello spettacolo dello spettacolo di Chaplin nei panni di Charlot. Solo che, quando Sto si spogliava del trucco da Signor Bonaventura, quando ridiventava Sergio Tofano, era, al contrario di Chaplin, forse più simpatico, più attraente, più affascinante del personaggio.
Il privilegio di aver potuto assistere mezzo secolo fa in un camerino alla buona a tale metamorfosi all'incontrario è uno dei rari fatti della mia vita di spettatore ai quali ritorni volentieri, anzi con gratitudine.
(introduzione a “Qui comincia la sventura del signor Bonaventura”, Milano, Garzanti, 1974)